Inderogabile la disciplina dei termini di pagamento e della fissazione del tasso di interesse contenuta negli articoli 4 e 5 del d.lgs 231/2002. Secondo la sentenza del Consiglio di stato, le clausole di bandi di gara contrastanti con la disciplina legale, di recepimento della direttiva 2000/35/CE (556), emanata dalla Ue come deterrente contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, sono da considerare nulle. Infatti, la deroga unilateralmente posta col bando finirebbe per introdurre un ingiustificato vantaggio per l’ amministrazione appaltante, violando il riequilibrio delle diverse posizioni di forza, che invece la direttiva comunitaria intende rafforzare. Né vale a giustificare la deroga la circostanza che i tempi di pagamento delle prestazioni degli appaltatori previste dalle regole contabili e di altro tipo non siano conciliabili con il breve termine legale.
FATTO
Con ricorso proposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale
per il Lazio le associazioni odierne appellate agivano per
l’ annullamento del bando di gara come sopra specificato, degli allegati
schemi di contratto e dei capitolati tecnici, con particolare riguardo
alla iniquità e nullità delle clausole relative al termine di pagamento del
corrispettivo e alla decorrenza e misura degli interessi moratori.
Il giudice di primo grado decideva il ricorso in forma semplificata
ritenendolo manifestamente fondato, rilevando: la legittimazione
processuale delle ricorrenti associazioni sulla base dell’ articolo 8 del
D.Lgs.231 del 2002; la violazione dell’ articolo 4 del D.Lgs.231 del
2002 della clausola, inserita nel bando, che prevede il pagamento del
corrispettivo solo dopo sessanta giorni dal ricevimento della fattura;la iniquità per violazione dell’ articolo 4 della clausola del contratto
che prevede la decorrenza degli stessi interessi moratori solo dopo
che siano decorsi centottanta giorni dalla scadenza del termine,
dovendo gli stessi decorrere dal giorno successivo alla suddetta
scadenza; la violazione dell’ articolo 5 del D.Lgs.231 del 2002 della
clausola del contratto di appalto che stabilisce un saggio di interesse
con riguardo agli interessi moratori nella misura del tasso di interesse
della Banca Centrale Europea, senza applicazione della maggiorazione
prevista nella menzionata disposizione normativa di sette punti
percentuali.
Avverso tale sentenza, ritenendola ingiusta, propone appello
l’ Amministrazione della Giustizia, deducendo le seguenti censure:
1) in via preliminare, si pongono dubbi sulla legittimazione delle
ricorrenti associazioni di categoria, che non hanno partecipato alla
gara; 2) inoltre la immediata impugnabilità delle clausole è possibile
solo in caso di clausole preclusive alla partecipazione; 3) nel merito si
osserva che la deroga all’ articolo 4 è ammessa dalla medesima legge,
che fa riferimento ad un possibile accordo tra le parti agli articoli 4 e
7, che richiede la giustificazione per ragioni obiettive.
Nella specie 18 imprese hanno presentato istanza di ammissione, 14
sono state ammesse a presentare l’ offerta e soltanto sei offerte sono
pervenute nei termini e quindi è stata effettuata l’ aggiudicazione ad
una di esse.
L’ appellante Ministero deduce sia in ordine alla esistenza di ragioni obiettive, che rendono valide tali clausole, sia in ordine alla
accettazione delle stesse da parte dei partecipanti.
Si giustifica la particolarità delle clausole di favore per
l’ Amministrazione, per la sua particolare posizione: il Ministero
appaltante, una volta ricevuta la fattura, deve provvedere all’ esame
della stessa e alla verifica della corrispondenza del numero dei pasti,
ad emettere il decreto di liquidazione e inviare il medesimo tramite
SICOGE alla ragioneria Provinciale dello Stato per il controllo
preventivo ex lege; successivamente si provvede al controllo su tale
decreto di liquidazione e al successivo accreditamento della somma da
parte della Ragioneria Provinciale dello Stato al conto corrente
bancario del creditore.
Inoltre, le partecipanti formulano l’ offerta nella piena conoscenza di
tali clausole e le concorrenti hanno formulato la loro offerta, non solo
accettandone quindi i contenuti, ma soprattutto modulando il prezzo
in relazione alle varie clausole, tra le quali quelle contestate.
Si sono costituite le appellate associazioni, che deducono in via
preliminare che l’ appello è stato proposto soltanto dal Ministero della
Giustizia, mentre il bando è stato indetto dal Provveditorato
Regionale della Amministrazione Penitenziaria del Lazio.
Nel merito
chiedono il rigetto dell’ appello perché infondato e perché sono da
ritenersi inique le clausole contestate che, se rettamente formulate,
avrebbero consentito una maggiore partecipazione di imprese alla
gara stessa.
Con ordinanza adottata alla camera di consiglio del 22 settembre
2009 questa Sezione, in sede cautelare, ha accolto la richiesta di
sospensione di esecutività della impugnata sentenza.
Alla udienza pubblica del 12 gennaio 2010 la causa è stata trattenuta
in decisione.
DIRITTO
1.Va rigettata la eccezione preliminare di inammissibilità dell’ appello
sollevata dalle appellate associazioni, che deducono tale vizio sulla
base della circostanza che l’ appello risulta proposto dal solo Ministero
della Giustizia, mentre gli atti impugnati (il bando) sarebbero stati
emessi dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria e dal
Provveditorato.
L’ eccezione è infondata.
E’ principio noto che quando parte in giudizio, nella specie, attorea,
sia una amministrazione dello Stato, valga sempre il principio della
esclusiva legittimazione del Ministero in persona del Ministro p.t.,
tanto che addirittura qualsiasi errore sul Ministero interessato o
sull’ organo competente sarebbe irrilevante (così Cassazione 10 luglio
1991, n.7642).
Nella specie, è perfettamente appropriato che l’ appello sia stato
proposto dal Ministero, in persona del Ministro pro tempore, come
prevede la disciplina in materia di rappresentanza dello Stato in
giudizio.
La particolare disciplina in favore dello Stato (r.d. 1611 del 1933 e L.260 del 1958), nel senso della unitarietà della persona giuridica
statale, è da giustificarsi, quando lo Stato è convenuto, con la esigenza
di facilitare lo Stato, evitandogli difficoltà o inutili operazioni che
ritardano le sue difese, e di fare giungere subito la lite all’ organo
competente.
Quando lo Stato è attore (nella specie è appellante) esso è sempre
persona giuridica unitaria e eventuali errori sugli organi competenti –
che nella specie neanche sussistono, avendo il Ministero, difeso dalla
Avvocatura dello Stato, agito in persona del Ministro pro tempore, in
presenza di bando adottato dal Dipartimento o dal Provveditorato,
che sono articolazioni o strutture della organizzazione ministeriale –
non provocherebbero alcun danno alla controparte e potrebbero
essere comunque essere corretti liberamente e in ogni tempo dalla
Avvocatura dello Stato.
2.Con il primo motivo di appello il Ministero della Difesa deduce la
carenza delle condizioni dell’ azione, il difetto di legittimazione ad
agire delle ricorrenti associazioni rappresentative, perché estranee alla
gara, e il difetto di interesse attuale, in quanto sarebbero
immediatamente impugnabili soltanto le clausole del bando
immediatamente preclusive alla partecipazione delle imprese.
Il motivo è infondato, sulla base di considerazioni che attengono alla
particolarità della legittimazione e dell’ interesse rispetto alla specialità
della azione inibitoria e alla sua ratio nella disciplina in questione,
anche in ragione della stretta connessione tra la legittimazione e l’ interesse ad agire.
L’ articolo 8 del D.Lgs.231 del 2002 prevede la legittimazione delle
associazioni di categoria in rappresentanza delle imprese piccole e
medie, richiedendo al giudice competente di accertare la iniquità di
condizioni generali di contratto ai sensi dell’ articolo 7, rispetto a
clausole concernenti la data del pagamento, le conseguenze negative e
di inibirne l’ uso, chiedendo anche la adozione delle misure idonee a
correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate.
La inibitoria è concessa quando ricorrono i giusti motivi di urgenza ai
sensi degli articoli 669-bis e seguenti del codice di procedura civile.
La legittimazione delle associazioni di categoria è prevista quindi
espressamente dalla normativa primaria, di recepimento della direttiva
comunitaria, e pertanto non può essere posta in discussione.
Nella specie, sulla base della normativa speciale oggetto della recepita
direttiva diretta a rafforzare le posizioni creditorie a priori considerate
deboli, le associazioni in questione, pienamente in aderenza allo
spirito della legge, non sono né imprese partecipanti né imprese che
avrebbero voluto presentare domanda o avrebbero voluto comunque
prendere parte alla gara in questione; inoltre, l’ oggetto del giudizio a
rigore non è il bando ma in realtà le clausole inique in esso contenute, di cui
si vuole evitare l’ inserimento.
Le ricorrenti sono associazioni di categoria che tutelano interessi
collettivi (delle piccole e medie imprese che avrebbero voluto o
potuto partecipare) rispetto a clausole contrattuali inserite contenutisticamente nel bando o nella lex specialis, che possono, a
causa della loro iniquità, avere avuto un effetto dissuasivo rispetto ad
una probabile e più allargata volontà di partecipazione.
E infatti, a rappresentare il loro interesse, le associazioni odierne
appellate, ricorrenti in primo grado, hanno giustamente osservato
come non rilevi affatto, ai fini delle condizioni dell’ azione
(legittimazione e interesse), la presenza di varie domande (una decina)
e la partecipazione effettiva di sei imprese, che avrebbero accettato le
clausole supposte inique: a ritenere sussistente l’ interesse ad agire è la
considerazione che, in assenza delle contestate clausole ritenute
inique, ma che certamente non sono in sé ostative alla partecipazione
alla gara, probabilmente avrebbero partecipato altre imprese medie o
piccole in numero quindi maggiore rispetto alla gara come
effettivamente svoltasi.
Non ha senso richiamare il, peraltro giusto e noto, principio della
giurisprudenza amministrativa (dalla Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato n. 1 del 2003) sulla immediata impugnabilità dei bandi (rectius,
sull’ onere di immediata impugnazione) solo in caso di clausole
immediatamente preclusive o esclusive, rinviando alla congiunta
impugnazione delle medesime unitamente alla aggiudicazione a favore
di altri le altre clausole della lex specialis che riguardino invece le
modalità di svolgimento della gara, le operazioni di gara, le modalità
di pagamento e così via, ma che non abbiano impedito o siano in
grado di impedire la partecipazione alla medesima gara.
D’ altronde, la particolarità dell’ interesse ad agire nel senso di una
consentita anticipazione della attualità della soglia di lesività si
giustifica, con riguardo alla azione di inibitoria instaurata ai sensi
dell’ articolo 8 su citato, in quanto non si tratta di azione ordinaria
impugnatoria delle condizioni generali del contratto (rectius, del
bando), ma di azione di accertamento della grave iniquità di esse
clausole e di inibitoria all’ uso delle medesime, azione diretta a
prevenire e comunque impedire il danno derivante dalla esistenza di
tali clausole.
Si tratta di una azione speciale particolare, disciplinata dalla normativa
specifica, che configura un diritto soggettivo del soggetto legittimato
o comunque una posizione a tutela di interessi collettivi o di categoria
(art. 8).
La inibitoria finale, come nella specie, (non incidentale, nel senso che
“casca dentro” al giudizio principale, come pure è processualmente
possibile) è quel comando del giudice, che, intervenendo
processualmente dopo l’ accertamento dei diritti e dei doveri delle
parti (previo accertamento quindi della invalidità per iniquità), ha
come contenuto l’ obbligo di porre immediatamente fine ad una attività
illecita o di non porla mai in essere.
Proprio in questo senso, la disposizione dell’ art. 8, d.lgs. 9 ottobre
2002, n. 231 (555), recante in rubrica “tutela degli interessi collettivi”,
intende attuare le indicazioni dell’ art. 3 della direttiva 2000/35/CE
(556) sui ritardi nei pagamenti, per cui “gli Stati membri assicurano
che, nell’ interesse dei creditori e dei concorrenti, esistano mezzi
efficaci e idonei per impedire il continuo ricorso a condizioni
gravemente inique”, specificando, al successivo 5° comma, che
debbono adottarsi “disposizioni che consentano a organizzazioni
titolari di un riconoscimento ufficiale di legittimo interesse a
rappresentare piccole e medie imprese, di agire a norma della
legislazione nazionale dinanzi ai tribunali o ad organi amministrativi
competenti per decidere se le condizioni contrattuali stabilite per uso
generale sono gravemente inique ai sensi del paragrafo 3, in modo
che possano ricorrere a mezzi appropriati e efficaci per impedire che si
continui a ricorrere a tali condizioni”.
Nell’ art. 8 tutto ruota attorno al conferimento della legittimazione ad
agire alle associazioni di categoria degli imprenditori per ottenere
l’ inibizione dell’ utilizzo (l’ inserimento) di condizioni contrattuali
gravemente inique ex art. 7, oltre all’ adozione di misure idonee a
correggere gli effetti delle violazioni e alla pubblicazione del
provvedimento su quotidiani.
In particolare, si è introdotta una forma di tutela generale e preventiva
contro l’ utilizzazione di condizioni contrattuali inique, accanto, a
monte ed a livello collettivo, rispetto alla tutela individuale e
successiva del singolo imprenditore che abbia già stipulato un
contratto contenente clausole inique.
Ai sensi del comma 2, poi, l’ inibitoria può essere pronunciata anche in
sede cautelare, sussistendo giusti motivi d’ urgenza, con rinvio al
procedimento cautelare uniforme di cui agli artt. 669-bis e seguenti
c.p.c.
Il comma 3 consente alle associazioni di ottenere la pronuncia di una
condanna del soccombente al pagamento di una somma di denaro
per ogni giorno di ritardo nell’ adempimento di quanto ordinato con il
provvedimento inibitorio di cui ai primi due commi.
Poiché la disposizione dell’ art. 8 mira ad impedire la circolazione di
condizioni generali di contratto gravemente inique nei rapporti tra
imprenditori, l’ intento del legislatore delegato è quello di estendere la
tutela contro l’ uso di clausole vessatorie o abusive, prevista dall’ art.
1469-sexies c.c. per i consumatori, a soggetti che tali non sono ma
che operano sul mercato appunto quali imprenditori. La tutela vale
per le clausole contrattuali che incidano sul termine per
l’ adempimento e sulle conseguenze del ritardato pagamento (in
particolare, sugli interessi moratori).
Si intende per imprenditore “forte” anche la pubblica amministrazione per
indicare colui che predispone condizioni generali di contratto e le
utilizza nelle “transazioni commerciali”, e che è convenuto nell’ azione
collettiva; di imprenditore “debole” in relazione al soggetto cui mira la
tutela predisposta dal decreto legislativo, cioè la piccola o media
impresa che si vede imposte, nelle “transazioni commerciali” che
stipula con un imprenditore, clausole generali contrattuali inique da
quest’ ultimo predisposte.
Quanto alla legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi, il
comma 1 dell’ art. 8 attribuisce, come detto, la legittimazione ad agire
alle associazioni di categoria degli imprenditori, per ottenere dal
giudice i provvedimenti di cui alle tre lettere contenute nella stessa
disposizione.
Soprattutto, ed essenzialmente, dalla lettura combinata del punto a)
del comma 1 e del comma 2, emerge la facoltà delle associazioni di esperire
un’ azione inibitoria e di accertamento della iniquità.
Si tratta di un processo che porta, in caso di accoglimento della
domanda, alla pronuncia di una sentenza che accerta la invalidità delle
clausole inique e con cui si ordina eventualmente al soccombente la
cessazione del suo comportamento illegittimo e l’ astensione da esso
pro futuro, ovvero se non è già in atto una condotta abusiva la si
inibisce in via preventiva; nel caso qui previsto, si dichiara la invalidità
di tali clausole e eventualmente si ordina ad un imprenditore “forte”
di astenersi dall’ utilizzare, nei propri moduli contrattuali e nella
stipulazione con altri imprenditori “deboli” sul mercato, condizioni
gravemente inique.
Quale sia l’ oggetto del processo “inibitorio” e di accertamento della
iniquità immaginato dal legislatore delegato emerge dalla esegesi
combinata dei riferimenti testuali agli “interessi collettivi” ed alla
“legittimazione ad agire” attribuita alle associazioni rappresentative in
funzione dell’ inibitoria.
Si tratta di interessi della categoria collettivamente intesa e riguardata,
di cui sono resi portatori gli enti di essa rappresentativi: la legge opera un procedimento di “soggettivazione” dell’ interesse in capo
all’ associazione, cui attribuisce un diritto soggettivo proprio ed
autonomo all’ astensione o alla cessazione dell’ utilizzo sul mercato di
condizioni inique.
Più precisamente, secondo taluni l’ art. 8 muove dalla premessa che la
grave iniquità sia una situazione giuridica qualificabile come diritto
superindividuale o interesse diffuso.
La via interpretativa seguita da altri è ritenere che, a livello
sistematico, il legislatore operi uno stretto collegamento funzionale
tra la legittimazione ad agire e l’ inibizione del comportamento
abusivo: la legge crea un meccanismo per cui è attribuita alle
associazioni la titolarità del diritto nel momento stesso in cui è
riconosciuta la facoltà di azione a sua tutela.
Si tratta, come si esprime la dottrina, di un “diritto sotto veste
d’ azione” : le associazioni di categoria si vedono riconosciuto,
contestualmente all’ azione, un vero e proprio diritto al non uso da parte
di imprenditori “forti” sul mercato di condizioni generali di contratto
inique.
Accertando la invalidità per iniquità delle clausole, si accerta il diritto
al non uso nei confronti della parte c.d. “leonina”.
Così, il legislatore italiano conferma la propria tendenza a tutelare
interessi riconducibili ad una classe o categoria mediante
soggettivazione degli stessi in capo ad enti rappresentativi ed
attribuzione a questi ultimi di un diritto riconosciuto contestualmente
alla previsione dell’ azione.
Si pensi soprattutto, oltre che all’ inibitoria dell’ art. 1469-sexies c.c. e a
quella dell’ art. 3, legge n. 281 del 1998, vicine al presente art. 8, al
procedimento per la repressione di condotte antisindacali ex art. 28
Statuto dei Lavoratori, che dà un’ azione alle associazioni sindacali a
tutela del proprio diritto soggettivo, contestualmente riconosciuto, al
comportamento non-antisindacale del datore di lavoro, ed all’ art.
2601 c.c., il quale prevede un’ azione, funzionale alla cessazione della
concorrenza sleale posta in essere da un imprenditore, attribuita alla
legittimazione iure proprio delle associazioni professionali.
È questa, poi, la tendenza anche di altri ordinamenti, vicini al nostro,
quale ad esempio quello francese che, proprio in materia di clausole
contrattuali abusive, ha scelto l’ attribuzione di un diritto proprio alle
associazioni di categoria in funzione dell’ inibitoria dell’ uso di siffatte
clausole: si legga in proposito l’ art. L 421-6 del Code de la
Consommation, adottato con la legge n. 93-949 del 26 luglio 1993, nel
quale è confluita la legge n. 88-14 del 5 gennaio 1988 specificamente
dedicata alle azioni contro condizioni contrattuali inique.
Né può fare sorgere dubbio interpretativo la dizione “in
rappresentanza” riferita alle associazioni di categoria.
In realtà non si tratta di “agire in rappresentanza”, ma di concreta
rappresentatività, che giustifica la legittimazione ad agire.
La legittimazione è attribuita alle associazioni qualificate dall’ essere
“prevalentemente in rappresentanza delle piccole e medie imprese” ,
mentre è da escludersi che si tratti di sostituzione processuale,
ammessa ai sensi dell’ art. 81 c.p.c. soltanto nei casi in cui la legge lo
prevede espressamente.
Si deve allora correttamente intendere che la rappresentanza in
questione sia soltanto criterio per l’ individuazione delle associazioni di
categoria cui la legittimazione ad agire è attribuita, in conformità a
quanto previsto dall’ art. 1469-sexies c.c., per cui deve trattarsi di
associazioni “rappresentative”.
Quanto alla giurisdizione competente, essa appartiene all’ adito giudice
amministrativo, sia sulla base dell’ articolo 244 del D.Lgs.163 del 2006,
sia sulla base dell’ art. 6 della L.205 del 2000, le procedure di affidamento di
contratto di appalto di lavori pubblici, servizi e forniture, sono
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che
conosce delle posizioni di diritto o interesse (Cassazione a SS.UU.
n.11656 del 2008), esulando dalla giurisdizione del giudice
amministrativo solo le controversie sulla esecuzione e cioè sul
contratto ormai stipulato e quindi sul contratto non più in quanto negozio
ma in quanto rapporto (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n.9 del
2008).
Nel caso in esame la contestazione riguarda formalmente il bando,
ma soprattutto il contenuto iniquo di talune delle clausole contrattuali in
esso inserite e il giudizio di invalidità sulla base della loro ritenuta
iniquità.
Pertanto, in definitiva, sussistono le condizioni dell’ azione; sussistono
i presupposti per la tutela inibitoria o per l’ accertamento di cui al
decreto legislativo; sussiste la giurisdizione dell’ adito giudice
amministrativo; oggetto del giudizio sono le clausole inique di cui si
vuole impedire l’ inserimento.
4.Non è accoglibile la censura, consistente nel sostenere una pretesa
inapplicabilità della direttiva in questione, sulla celerità dei pagamenti
nelle transazioni commerciali, alla pubblica amministrazione.
Anzi, vale il richiamo specifico dell’ articolo 2 del D.Lgs., che
definisce la nozione di pubblica amministrazione, ritenendo anche
essa imprenditore forte ai sensi e per i fini del medesimo decreto.
Inoltre, proprio la presenza di alcune clausole contrattuali contrastanti
con le previsioni imperative della direttiva e in conflitto con lo spirito
del D.Lgs.231 del 2002, che tutela la posizione presuntivamente
debole dei creditori fornitori della P.A., dimostra come la fattispecie
si attagli alla situazione di “esorbitanza” di poteri, tipica del soggetto
che si pone in modo autoritativo (autorità pubblica o privata che sia).
In effetti tale condotta dell’ amministrazione (che può essere
contestata dai partecipanti sia nella fase antecedente che in quella del
rapporto contrattuale e che nella specie viene contestata in via
preventiva ai sensi del citato articolo 8 da associazioni rappresentative
di imprese medie e piccole) integra e concreta proprio uno di quei
comportamenti abusivi della parte contrattualmente più forte che il
legislatore ha inteso contrastare attraverso la introduzione di un
“diritto diseguale”, mirante a stabilire un equilibrio giuridico antitetico
rispetto al potere reale dei paciscenti (in tal senso, Consiglio di Stato,
V, 11 gennaio 2006, n.43).
5.Con riguardo all’ altra deduzione del Ministero appellante, il Collegio
osserva che non può sostenersi, come pretende l’ amministrazione,
che tali regole imperative sarebbero derogabili e che sarebbe
consentito un diverso accordo, rinvenibile, nella specie, nella
presentazione della offerta, che implicherebbe acquiescenza-accettazione
alla sostanziale iniquità.
L’ amministrazione pubblica, infatti, non ha il potere di stabilire
unilateralmente le conseguenze del proprio stesso inadempimento
contrattuale (come gli interessi moratori o le conseguenze del
ritardato pagamento) né potrebbe subordinare la possibilità di
partecipare alle gare alla accettazione di clausole aventi simili
contenuti, se non a costo di ricadere sotto le sanzioni di invalidità, per
iniquità, vessatorietà, mancanza di specifica approvazione a seguito di
trattative, sanzioni sopra descritte (in tal senso, Consiglio Stato, V, 30
agosto 2005, n.3892).
Non può sostenersi la prevalenza di tali clausole rispetto a quanto
previsto dal decreto legislativo di recepimento della direttiva
comunitaria: a parte il valore di supremazia della disciplina di
derivazione comunitaria, oltre che della normativa nazionale
imperativa, vale il principio per cui il contratto obbliga le parti non
solo alle regole previste dal medesimo, ma anche al rispetto delle
regole imperative e a tutto ciò che deriva dalla legge, dagli usi o dalla
equità (articoli 1339, 1419, 1418 e 1374 del codice civile).
Le norme imperative hanno pertanto un valore anche sostitutivo (arttt.
1339 e 1419 c.c.) di quanto previsto in violazione di esse.
Conseguentemente: 1) è invalida ogni clausola contrattuale che
preveda regole diverse e inique rispetto alle regole imperative, che
automaticamente si sostituiscono a quelle invalide; 2) sarebbe illegittima
ogni esclusione basata sulla non-accettazione o sull’ espresso dissenso,
da parte di una partecipante, di una clausola contrattuale iniqua; 3) in
sede di esecuzione contrattuale, le clausole invalide si porrebbero nel
nulla a richiesta di parte o di ufficio (ai sensi del terzo comma dell’ art.
7 il giudice dichiara anche di ufficio la nullità e applica i termini di
legge o riconduce ad equità il contenuto dell’ accordo medesimo: si
tratta di una cosiddetta nullità speciale di derivazione comunitaria); 4)
infine, e ciò rileva nel caso di specie, in caso di azione inibitoria
intentata da associazioni di categoria a tutela di interessi collettivi le
clausole da ritenersi inique sono poste nel nulla e quindi non
applicabili, anche se comunque mantiene la sua funzione l’ ordine
inibitorio, a causa dell’ effetto dissuasivo che tali clausole inique, per quanto
insuscettibili di produrre effetti, potrebbero avere sulla volontà a
partecipare delle imprese medie e piccole.
Lo scopo del particolare strumento di tutela individuato dalla legge è
quello di impedire l’ inserimento di tali clausole, prima ancora della loro
applicazione o invalidazione.
6.Con altro mezzo di appello il Ministero della Difesa sostiene, la non
iniquità nei contenuti delle clausole contestate, che invece ai sensi
dell’ articolo 7, sarebbero motivate giustamente sulla base delle ragioni
oggettive dell’ amministrazione pubblica e in particolare a causa della
lunghezza della procedura di pagamento.
Il motivo svolto dalla Amministrazione è infondato.
Le clausole contestate e ritenute nulle perché inique dal primo giudice
riguardano: il pagamento del corrispettivo a 60 giorni dal ricevimento
della fattura, anziché ai 30 giorni, previsti dall’ art. 4 del D.Lgs.231 del
2002; la decorrenza degli interessi moratori dal 180° giorno anziché
dal 30° giorno successivo alla scadenza del termine di pagamento,
previsto dall’ articolo 4; il saggio di interesse dell’ 1% anziché dell’ 8%
(1% tasso BCE, più 7 punti di maggiorazione) previsto dall’ art. 5.
Le clausole suddette si pongono in diretta violazione degli articolo 4 e
5 del D.Lgs.231 del 2002, la cui deroga non è ammessa dalla legge né
nella presentazione della offerta può rinvenirsi il diverso accordo
contrattato dalle parti solo a seguito di apposita contrattazione e
trattativa sul punto, che evoca un concetto di contatto di tipo
pararapportuale (o precontrattuale) che non può rinvenirsi certo nel
binomio “bando- presentazione dell’ offerta”, che già integra
(quantomeno in parte) la conclusione del contratto.
Inoltre, tali clausole si pongono in modo indubbio nel senso di
introdurre un ingiustificato vantaggio per la amministrazione
predisponente, concretandosi nella aperta violazione della disciplina
di riequilibrio delle diverse posizioni di forza, la cui tutela la direttiva
comunitaria è proprio diretta a rafforzare.
7.Per le considerazioni sopra svolte, l’ appello va respinto, con
conseguente conferma della impugnata sentenza, che ha sancito la
invalidità di tali clausole, con l’ effetto di impedirne l’ inserimento.
Sussistono giusti motivi per disporre tra le parti la compensazione
delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quarta,
definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, così
provvede:
rigetta l’ appello, confermando la impugnata sentenza. Spese
compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’ autorità
amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio
2010 con l’ intervento dei Signori:
Gaetano Trotta, Presidente
Antonino Anastasi, Consigliere
Anna Leoni, Consigliere
Sergio De Felice, Consigliere, Estensore
Vito Carella, Consigliere
L’ ESTENSORE IL PRESIDENTE
Il Segretario
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 02/02/2010
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
Il Dirigente della Sezione
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